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Roberto Benigni - Ansa
«Un bambino cresce solo se sognato», scriveva Danilo Dolci. E forse è proprio questa la categoria che è mancata — e continua a mancare — alla costruzione dell’Europa: il sogno. Non bastano le regole, non basta la moneta unica, non basta la burocrazia. Serve un sogno, qualcosa che scaldi i cuori e spinga all’azione. Con questo spirito Roberto Benigni torna a parlare al grande pubblico, non più soltanto con la forza della comicità, ma con un progetto culturale, civile e politico che prende corpo ne Il sogno (pagine 152, euro 15), il libro che esce per Einaudi in questi giorni, e che è in parte la trasposizione di uno spettacolo televisivo andato in onda in Eurovisione il 19 marzo scorso. Benigni si rivolge a tutti, ma soprattutto ai giovani: agli europei «di fatto», nati dopo l’introduzione dell’accordo di Schengen e dell’euro, abituati a viaggiare senza passaporto, a studiare a Barcellona, lavorare a Praga e innamorarsi a Parigi. A loro dice che l’Europa non è solo una moneta o una burocrazia lontana, ma una scelta di civiltà. E che il sogno è già cominciato. Si tratta ora di non lasciarlo sgonfiare come un pallone dimenticato in un campo da calcio di periferia. Il cuore del messaggio è chiaro: l’Unione Europea non può più essere un compromesso tra nazionalismi. Troppi decenni sono stati spesi nel tentativo di salvare il vecchio stampo dello stato nazionale, che ha alimentato solo rivalità e guerre. Un’Europa fatta solo di Stati sovrani è fragile, incapace di affrontare le grandi sfide globali: la transizione ecologica, la difesa comune, l’equità sociale. Benigni allora utilizza la categoria del sogno per ridare forza e senso politico a un progetto troppo spesso ostaggio di tecnicismi e disincanto. L’Europa, al contrario, proprio come il bambino di Danilo Dolci, avrebbe bisogno di essere sognata, incoraggiata, nutrita. E come ai bambini fa male chi frena la loro crescita agitando lo spauracchio dei pericoli che ogni percorso umano comporta, così all’Europa fa male chi continua ad additare soltanto i suoi limiti, magari sorridendo dagli spalti quando — nel lodevole sforzo di avanzare — barcolla e cade a terra. Benigni — in verità — attribuisce queste “cadute” non tanto all’azione dell’Europa in sé, quanto al tradimento di chi le tende la fune, attraverso il ricatto del diritto di veto, in sede di Consiglio europeo. Su questo, lui non ha dubbi: il diritto di veto è un’arma in mano a chi vuole strappare vantaggi esclusivi per la propria patria. Va abolito! Dagli spalti, però, si ride anche del progetto di un esercito comune, così necessario per emanciparsi dalla tutela statunitense, descrivendolo come una raccogliticcia «armata Brancaleone »... Ma nel passato europeo sono sempre esistite forme di cooperazio-ne militare: nel Medioevo, ad esempio, contingenti di armati provenienti da ogni angolo del continente si riunivano sotto un’unica guida — un re o un imperatore — per difendere la Res publica Christiana contro le minacce esterne. L’Europa medievale già percepiva se stessa come un’unica entità facente riferimento a due grandi poteri sovranazionali, il papa e l’imperatore, incaricati di garantire ordine, pace e coesione tra i diversi popoli cristiani. Essa era tenuta insieme dall’unica fede, ma anche dalla lingua comune: il latino, che era la lingua della scuola, del diritto e della cultura. Per chi conosce il Medioevo, appare bizzarro temere che l’integrazione europea possa minacciare le identità nazionali, poiché allora il senso fortissimo di appartenenza alla Res publica Christiana coesisteva con rilevanti differenze locali e profonde frammentazioni politiche. In questo solco ideale, si inserisce la riflessione di Michele Ballerin, coautore — insieme a Stefano Andreoli — del volume, il quale propone con forza la via del federalismo come compromesso onorevole per uscire dalla stagnazione in cui ci troviamo, quella di un’Europa incompiuta. Gli Stati Uniti d’America ci sono riusciti: i singoli Stati hanno ceduto al governo federale alcune competenze fondamentali — politica estera, difesa, moneta — senza rinunciare alla propria identità. Non è necessario cancellare il particolare per abbracciare l’universale: è proprio nella sintesi tra differenze e unità che può nascere un’Europa finalmente adulta. Il libro è anche un viaggio nella storia dell’idea europea, dai padri Rossi, Spinelli e Colorni - a Jean Monnet, un «signor nessuno» che contribuì in modo decisivo alla vittoria degli Alleati, grazie alla sua capacità di guardare oltre i limiti imposti dai confini statali. La forza del libro di Benigni è quella di tradurre questa storia e queste riflessioni in immagini popolari e potenti. La più efficace è tratta dal suo repertorio: il film Non ci resta che piangere, in cui ogni passaggio di frontiera costa «un fiorino» ai due spaesati protagonisti proiettati nel Medioevo. Oggi, grazie all’Unione, quel fiorino è diventato il simbolo di un passato da non rimpiangere. Eppure, c’è ancora chi intona un malinconico requiem alla lira. Contro questi nostalgici, Benigni si fa severo: è «da uomini vecchi» ragionare con le categorie dell’escudo, del franco, del marco. Nessuna studentessa italiana infatti si vorrebbe veder negare l’accesso a un’università spagnola, e nessun giovane slovacco la possibilità di lavorare a Berlino, in nome delle rimpiante prerogative degli stati nazionali. «Viviamo in un tempo in cui ai migliori manca ogni convinzione, mentre i peggiori sono pieni di appassionata intensità». Questa è l’amara citazione di Yeats, con cui Benigni apre il suo testo. Essa fotografa perfettamente il rischio del nostro tempo: lasciare il futuro in mano ai fautori della paura, mentre chi ha idee, speranza e visione resta in silenzio. Spesso i sostenitori dell’idea europea mancano della capacità di comunicare con immediatezza. Roberto Benigni invece ha da sempre il dono di disvelare ciò che già abita noi: l’idea di bene, di giusto, di possibile. E questo perché in tanti anni di carriera – costellata da un inesauribile amore del pubblico – ha sempre dato prova di un impegno civile autentico, che lo ha portato a divulgare temi alti e universali, cari alle persone di buona volontà, dotate anche di un po’ di fede, non necessariamente religiosa! Sprovvisti di un granello di fede, del resto, non solo ci riesce difficile ordinare a un albero di andare a piantarsi nel mare, ma anche a un piccolo ramoscello di spostarsi dai nostri passi. E allora, dopo aver parlato d’Europa in ogni ambito possibile, dopo averne soppesato ogni limite, ogni margine, ogni ragionevole estensione, dopo aver discusso la sua natura da ogni angolazione, e dopo esserci scontrati per decenni tra europeisti e antieuropeisti — spesso europeisti quando si trattava di ricevere benefici, e scettici quando si trattava di fare sacrifici — lasciamoci trascinare dalla fede di Benigni nel sogno europeo e dalla sua voce, che, per molti e per molte, è diventata quella di un padre nobile dell’identità italiana.