
Adrian Paci, “The bell tolls upon the waves”, 2024. Video, loop, 19’50’ - Courtesy l’artista, kaufmann repetto, Milano/New York, e Peter Kilchmann gallery, Zurigo e Parigi
Seconda tappa per il cammino giubilare di Conciliazione 5, il nuovo progetto di arte contemporanea promosso dal Dicastero per la Cultura e l’Educazione, che oggi inaugura la mostra di Adrian Paci “No man is an island”. Dopo il mondo del carcere, ritratto da Yan Pei-Ming, la sguardo si rivolge ora ai migranti e alla migrazione, tema al cuore di molti lavori dell’artista nato a Scutari nel 1969 e da anni residente a Milano. Due le opere presentate da Paci, appartenenti a momenti diversi della sua carriera e della sua vita. Nella window gallery affacciata su via della Conciliazione è allestita Home to Go (2001), una figura maschile, calco del corpo dell’artista, che sorregge sulle spalle un tetto capovolto. Nelle Corsie Sistine del complesso di Santo Spirito in Sassia, antico ospedale per pellegrini e malati, viene esposta per la prima volta in Italia The bell tolls upon the waves (2024), video installazione nata per la Fondazione Giorgio Pace di Termoli, che mostra una campana collocata sopra una piattaforma galleggiante in mezzo al mare. La mostra è a cura Cristiana Perrella, alla quale è affidato il programma per il primo anno di attività di Conciliazione 5.
Come è stato costruito questo dittico?
«Siamo partiti da Conciliazione 5: è uno spazio che si guarda dalla strada, senza potervi entrare. Abbiamo quindi pensato a un lavoro d’impatto immediato ma silenzioso: qualcosa che catturasse lo sguardo senza essere aggressivo, che “incontrasse” il pellegrino mentre cammina verso San Pietro senza interromperlo, ma sorprendendolo. Così abbiamo scelto Home to Go, uno dei miei primi lavori. L’abbiamo collocato in profondità, perché fosse una figura che dovesse in qualche modo essere scoperta. Poi c’è l’ambiente straordinario delle Corsie Sistine: ampio, lungo, alto, con una storia e un’architettura molto forti. In questo caso, lo spazio permette un approccio fisico. Per The Bell Tolls Upon the Waves abbiamo installato tre ledwall che acquisiscono una dimensione scultorea, creando una presenza che si fa più intensa mentre ci si avvicina. Sono due lavori diversi, certo, ma che condividono una riflessione: Home to Go è segnato dalla figura del viandante, di chi lascia la propria casa ma la porta con sé – come un tetto rovesciato che sembra quasi diventare un paio d’ali. Dall’altra parte c’è questa campana che suona nel mezzo del mare, giorno e notte, spinta dalle onde, capace di evocare tante suggestioni, anche le morti che avvengono nel Mediterraneo».
La figura di Home to Go evoca il Cristo che porta la croce. È una suggestione presente fin dall’inizio o è emersa successivamente?
«In generale cerco di non dominare i miei lavori. Non li considero come contenitori in cui riversare a forza tutte le mie intenzioni. Il mio approccio è più contemplativo, già in fase embrionale: mi piace leggere un’immagine anche prima che diventi opera. Poi, durante il processo di realizzazione e fino all’allestimento, continuo a dialogare con l’opera. Non voglio forzarla a dire ciò che voglio io, preferisco ascoltare quello che lei ha da dire. Nel caso di Home to Go, il rimando al Cristo portacroce non era un’intenzione iniziale. È emerso dopo, nel momento in cui l’opera ha preso forma. Sicuramente l’associazione arriva anche grazie a memorie iconografiche interiori, immagini sedimentate che riaffiorano».

Adrian Paci, "Home to Go", 2001 - Courtesy l’artista, kaufmann repetto, Milano/New York, e Peter Kilchmann gallery, Zurigo e Parigi
In un contesto museale il rimando iconografico resta più attenuato. Qui, invece, assume una forza forse inattesa.
«Sì, è così. In un museo certi riferimenti tendono a restare più sfumati. Ma quando porti la stessa opera in un contesto come il Giubileo, quei riferimenti emergono con una forza che può essere sorprendente persino per me. Per questo credo sia importante che le opere restino aperte, che non chiudano il loro senso. Il significato di un lavoro si modella anche attraverso il dialogo con il contesto. Allo stesso tempo, però, è vero anche il contrario: è l’opera stessa a portare qualcosa nel luogo in cui arriva. Anche in un momento fortemente connotato dal punto di vista simbolico e religioso come quello giubilare, un’opera come questa – un corpo nudo che porta un tetto – non è solo un rimando alla figura di Cristo, ma è anche e soprattutto un uomo. C’è uno scambio, un arricchimento reciproco».
Venendo a The bell tolls upon the waves, ciò che colpisce è che il cui suono di una campana ha sempre qualcosa di sacro, anche quando non lo è in modo esplicito, e una natura comunitaria. Il rintocco che pulsa nel tempo apre a un’altra dimensione. È per tutti il richiamo della memoria, del lutto, della festa, della presenza degli assenti.
«Quando ho immaginato questa campana, mi chiedevo: cosa succede se il mare è calmo? Se non ci sono onde, resta muta? Invece no. I suoni più belli sono forse proprio quelli più leggeri, quelli che nascono da un’onda lenta, morbida. È il mare a suonare la campana. È lui a decidere, non più l’uomo. È la natura, è il tempo, è l’imprevedibile a determinare il suono. E questo per me è stato fondamentale. Quando l’opera entra in uno spazio espositivo come Santo Spirito in Sassi, interpreta la memoria del mare e del luogo da cui viene, ma anche quella dello spazio che la accoglie, un luogo attraversato dalla sofferenza, dalla cura, dalla morte. E allora quel suono diventa anche memoria del dolore».
Quindi non può essere una campana come un’altra?
«Vede, questa ha già in sé una storia. Riguarda un luogo specifico di Termoli ed è legata a una leggenda: quella dell’antica campana di Santa Caterina rubata dai turchi e affondata in mare insieme alla loro nave – e che i pescatori dicono di sentire ancora. È un topos, certo, la campana sommersa. Ma è anche una storia vera. E poi c’è un altro elemento: in Molise si trova la fonderia di campane più antica al mondo ancora in attività. È lì che è stata realizzata questa campana. Che adesso, attraverso il video, viaggia. Porta con sé la propria storia e incontra nuovi contesti, nuovi ascolti».
Anche le opere d’arte sono migranti.
«Sì, assolutamente. E lo sono soprattutto quando contengono una tensione interna. È lì che sta il cuore del lavoro, la sua vibrazione, che prosegue in qualunque spazio l’opera viene esposta. Credo che questo sia, in fondo, il senso del gesto artistico: creare spostamenti. Fare qualcosa che smuove. Che non lascia tutto com’è. E lo si può fare con delicatezza o in modo diretto, ma deve esserci sempre questo moto, questo attrito. Quando accade, nasce anche una possibilità».
In Hometo Go un uomo avanza ma non può lasciare dietro di sé tutto ciò che è stato. In un altro video, Centro di permanenza temporanea, c’è una scaletta di un aereo ma non il velivolo, ed è carica di persone che non possono proseguire né scendere. Si è emigranti per sempre? E quanto è necessario per lei sciogliere il suo lavoro da un piano biografico?
«La biografia è il punto di partenza, non può essere diverso. Ma io non lavoro sul tema dell’immigrazione, io lavoro su esperienze, attraversate anche in prima persona. Queste non offrono semplicemente un argomento: danno atmosfere, temperature emotive, determinano un immaginario. Questa partecipazione in prima persona non vuole essere autoreferenziale. Io penso che sia soprattutto una condizione esistenziale. Tutti noi, in qualche modo, viviamo uno stato di transito. E così ci troviamo in questa dimensione dell’essere tra le cose. Ecco, io ho sempre voluto indagare la potenzialità di questa zona tra le cose. Non come una zona di totale blocco, ma di tensione. Dove c’è comunque la spinta a muoversi, anche se dall’altra parte c’è un arresto, un non ancora. Questo non ancora mi aiuta non tanto a definire un’impossibilità totale ma a mantenere le cose sempre in potenza».
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